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Con un comunicato ufficiale reso noto oggi il Ministero del Lavoro ha ristretto la portata dell’obbligo di cui alla l. 92/2012, riservando tale obbligo solo alle aziende, non più anche alle famiglie.

Dal I gennaio 2013 è entrata in vigore la norma per cui in caso di licenziamento di una collaboratrice domestica il datore di lavoro avrebbe dovuto versare all’INPS un somma che poteva arrivare a 1450 euro l’anno, per un massimo di tre anni.

Con la Riforma Fornero  (l. 92/2012) il Governo Monti ha introdotto una vera e propria “tassa di licenziamento” per le migliaia di persone con disabilità e le loro famiglie che avessero licenziato il proprio collaboratore domestico, costrette a pagare, oltre al TFR, un onere aggiuntivo di preoccupante entità.

Il co. 31 dell’art. 2 stabilisce infatti che, “in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni” il datore di lavoro è tenuto a  versare all’ INPS un contributo di 480 euro circa per ogni anno di contratto fino a un massimo di 1450 euro,

somme che andranno a finanziare le casse  dell’ASPI (assicurazione sociale per l’impiego) che da gennaio di quest anno sostituisce l’indennità di disoccupazione.

Stando a una prima interpretazione la norma creava una profonda disparità di trattamento, poiché, vincolando all’obbligo del contributo tutti i datori di lavoro, non operava alcuna distinzione tra imprese e famiglie.

Ha subito suscitato l’opposizione dei sindacati dei datori di lavoro dei collaboratori domestici, l’Assidatcolf, che ha sollevato il problema di come questo disposto, rappresentando una vera stangata per le famiglie delle persone con disabilità, avrebbe di fatto scoraggiato la regolarizzazione delle assunzioni in un settore dove il lavoro sommerso è già ampiamente diffuso.

In molti avrebbero preferito infatti assumere in nero una badante/colf.